La sfida e il rischio

La scorsa settimana a mercati chiusi Trump recita davanti al Congresso il più “presidenziale” dei suoi discorsi. Il giorno dopo Wall Street ingrana la quarta con il Dow Jones che rompe 21.000 per la prima volta nella storia. The Donald twitta orgoglioso: dal giorno delle elezioni la Borsa ha “creato” 3,2 trilioni di dollari e la fiducia è ai massimi di 15 anni.

E non conta i miliardi che stanno per aggiungersi con l’IPO col botto di Snap, la casa madre di Snapchat. Ma le prime pagine dei due maggiori giornali finanziari di giovedì non gli danno soddisfazione: per il FT Wall Street vola perché scommette sul rialzo dei tassi della Fed, per il WSJ la pietra miliare del Dow è dovuta ai dati sull’inflazione in ripresa. Settimana scorsa abbiamo scritto che andrebbe messa da parte l’avversione al rischio e sfoderata l’avversione alle parole (di giornali e tv) che ci raccontano una storia diversa dalla realtà. Confermiamo. Non c’è niente da fare, da un anno a questa parte ai mercati piace il cambiamento, e lo premiano, fregandosene altamente se i media, i think thank e i guru raccontano una storia diversa.

Prendiamo le banche italiane. Ci hanno spiegato in tutti i modi che le sofferenze sono un problema ma lo sono anche i derivati delle grandi banche del Nord Europa, che i NPL non vanno svenduti allo straniero ma vanno prezzati giustamente, che siamo finiti nella trappola europea del bail-in come degli allocchi, etc. etc. C’è un signore che questo storytelling non se l’è bevuto, si chiama Mustier, oltre che il banker in vita sua ha fatto anche il parà, e da quando gli hanno messo in mano il timone di Unicredit è andato in direzione opposta rispetto alle analisi di cui sopra, i NPL li ha fatti fuori quasi tutti al prezzo che il mercato era disposto a pagare, e ora sono al 6% degli impieghi contro il 17,5% di media nazionale secondo l’ultima stima del FMI, ha venduto asset anche di pregio, come Pioneer, e ha fatto un aumento di capitale da 13 miliardi. Risultato, nella prima settimana dopo l’aumento, quella che si è chiusa venerdì scorso, Unicredit ha fatto più 15%. Ha cambiato registro, ci è andato giù con l’ascia dopo anni di tentennamenti (anche in tema di governance come mostra qualche uscita eccellente delle ultime ore), e il mercato ha premiato il coraggio e la determinazione a voltare pagina una volta per tutte.

Potrebbe spingersi a premiare perfino una vittoria di Marine Le Pen alle presidenziali francesi di inizio maggio? Sarebbe sicuramente un cambiamento molto grosso. Ma, dopo la Brexit, potrebbe forse anche essere lo shock che costringe Bruxelles e Berlino ad accettare il fatto che i trattati, da Maastricht a Schengen, vanno messi in un cassetto e riscritti, che Juncker deve andare a casa e che l’Europa va rifondata a partire dalla sicurezza e dalla difesa. La difesa sarà una chiave dei prossimi mesi e anni. Trump aumenta di 50 e passa miliardi di dollari la spesa per la difesa, Xi da Pechino risponde con un aumento del 7%, da 135 a 150 miliardi di dollari. Di Putin non si sanno i numeri, ma non serve saperli per capire dove vanno tutti i dollari incassati con il petrolio e il gas. Trump non solo aumenta la spesa militare, ma si prepara a ridurre il suo contributo alla NATO, se i partner europei, a cominciare dalla Germania, non allargano i cordoni della Borsa. Il 14 marzo riceve la Merkel alla Casa Bianca, e c’è da scommettere che il tema difesa sarà in cima all’agenda.

Premiare il cambiamento vuol dire prendersi il rischio. Se lo sono preso gli investitori che hanno premiato l’IPO di Snap con un aumento del titolo di oltre il 44% nel primo giorno di quotazione dopo l’IPO. Snap è la parent company di Snapchat, il social media “asociale” che piace ai millennials. Non fa utili e non dice neanche quando prevede di cominciare a farli. E il mercato la valuta 34 miliardi di dollari, con multipli che sono multipli di quelli di Google o Amazon. Cosa ha comprato il mercato a 17 dollari ad azione che sono diventati quasi 25 dopo un solo giorno di scambi? Ha comprato futuro, come faceva alla fine degli anni 90 in piena bolla della new economy. Ci risiamo? Calma. Anche se fosse una replica sembrerebbe l’inizio, non la fine di un ciclo. Il debutto col botto di Snap ci dice anche un’altra cosa. Ci dice che il mercato vede il valore nell’high-tech che riesce a creare grandi basi di utenti in poco tempo, ma anche che è più diffidente nei confronti dell’high-tech che punta su nuovi modelli di business, come Uber e Airbnb nella sharing economy o le tante società nate nell’universo di Internet of Things. Gli unicorni per ora restano in panchina. Internet torna alle origini, alla capacità di creare comunità di centinaia di milioni di persone.

Bottom line. Il mercato continua a vedere il bicchiere mezzo pieno di economie in accelerazione, a partire da quella americana, di imprese che sono pronte a ripartire dopo aver fatto ordine in casa, o di nuove imprese che si lanciano verso il futuro. E continua a ignorare il bicchiere mezzo vuoto dove aleggiano i rischi di catastrofi presunte generate dal protezionismo e dal populismo impersonate dal faccione di Trump cui potrebbe aggiungersi quello della Le Pen.

La reazione positiva di borse e dollaro al nuovo quadro sembra giustificata. L’impasse politica che sembrava profilarsi in America avrebbe giustificato un consolidamento delle borse che però ora è rinviato a data da destinarsi. I mercati a un certo punto si fermeranno, ma se in Francia non ci saranno sorprese non ci sarà bisogno di correzioni significative. L’atteggiamento continuerà ad essere di attesa fiduciosa.

(fonte FinanciaLounge Weekly Bulletin)


I timori politici non scompongono i mercati

L’economia globale sta gettando le basi per un primo trimestre del 2017 in accelerazione, trainata da un’America in salute. L’avversione al rischio resta minima nonostante i timori politici. 

Febbraio conferma la buona partenza del 2017 con i dati macro che indicano un trascinamento nel nuovo anno della chiusura positiva del 2016, confermata anche dal Giappone che chiude il quarto trimestre consecutivo con il segno più davanti al PIL. Il principale indicatore anticipatore, l’indice PMI, a febbraio si è cifrato a 56,0 da 54,4 di gennaio ai massimi da quasi 6 anni grazie soprattutto alla Germania. In USA l’attività manifatturiera ha accelerato per il quinto mese consecutivo grazie a ordini e produzione robusti. Dai mercati emergenti non sono emersi nuovi elementi di tensione politico-economica.

I due principali fattori positivi sono un andamento solido dei consumi americani e un forte recupero della fiducia nell’economia sia in Usa che nell’Eurozona. In America gli acquisti viaggiano allo 0,5% mensile, sostenuti da auto e servizi con la ducia vicina ai massimi di 13 anni toccati a gennaio. Nell’Eurozona sale ai massimi da 6 anni con l’indice IFO in accelerazione di 9 punti ai massimi dal 2015 mentre in Germania è al top da oltre 5 anni. Che l’economia europea sia avviata sul cammino della ripresa lo confermano anche i dati della bilancia commerciale, che registra un surplus record, ovviamente grazie alla Germania.

Ma in Europa si fanno sentire anche le preoccupazioni politiche. I sondaggi che danno in testa Marine Le Pen al primo turno delle presidenziali francesi di aprile hanno indotto qualche tensione sullo spread italiano e francese, con gli investitori che hanno rallentato gli acquisti di azioni cercando rifugio nel Bund tedesco e nel T-bond americano. Niente comunque di paragonabile alla crisi del debito europeo del 2011-12: l’avversione al rischio resta minima.

La ripresa dell’inflazione non mette in discussione più di tanto il QE di Draghi. Nell’Eurozona i prezzi viaggiano all’1,8% a gennaio ai massimi da quattro anni ma il tasso core, che la Bce vuol vedere vicino al 2%, resta fermo allo 0,9%, anche se in Germania i prezzi all’ingrosso sono ai massimi dal 2011 al 4%. Ma i tedeschi non premono più di tanto sulla Bce perché allenti lo stimolo monetario, con il capo della Buba Weidmann che concede tempo, forse per non aggiungere benzina ai timori politici, e dice che per chiudere il rubinetto c’è tempo.

L’Italia si conferma fuori dal tunnel: l’economia molto lentamente cresce, l’in azione dà timidi segni di risveglio, le banche non sono più una bomba pronta a esplodere. Ognuna ha la sua storia e va per la sua strada, Unicredit porta a casa con successo il suo maxi-aumento, MPS e le venete continuano le loro tribolazioni. Ma la crescita resta molto debole rispetto al resto d’Europa, sia il 2017 che il 2018 sono visti sotto l’1% e dalla politica vengono segnali di confusione con il ministro Padoan che comincia a spazientirsi, stanco di difendere l’indifendibile ritardo sulle riforme a Bruxelles.

Anche a marzo gli occhi degli investitori restano puntati sulla Casa Bianca. Trump vuol portare il Pil al 3-3,5% l’anno dal 2% dell’ultimo decennio. Dalla sua ha ancora la ducia dei mercati, anche se a Wall Street il ‘Trump trade’ si è preso una pausa nell’ultimo scorcio di febbraio, e quella della corporate America: secondo una survey di JP Morgan il 76% delle imprese USA con ricavi tra 20 e 500 milioni di dollari crede che avrà un effetto positivo sul business e gli executive ottimisti sono raddoppiati. E assumono: a gennaio sono stati creati 227.000 posti di lavoro dai 157.000 di dicembre.

Il cruscotto dei mercati

• Febbraio è stato un mese molto positivo per i mercati azionariper effetto del miglioramento delle aspettative sulla crescita economica e sull’in azione. Gli indici di Wall Street (S&500 e Dow Jones Industrial average) hanno registrato nuovi record e trainato le Borse di tutto il mondo a cominciare da quelle dei paesi emergenti (+4,7%) che sembrano, almeno per il momento, non preoccuparsi delle possibili mosse dell’amministrazione Trump in tema di de- globalizzazione: bene anche la zona euro (+2,5%) mentre Piazza Affari (+1,9%) ha comunque continuato a soffrire le dif coltà del settore bancario (-2,8% nel mese).

• L’aumento dei tassi del mercato obbligazionario ha limitato i guadagni dei titoli di stato (i cui prezzi si muovono in direzione opposta ai rendimenti): bene i Treasury USA (+2,2%) grazie al dollaro forte, e i bund tedeschi (+1,6%), acquistati in modo massiccio sulla scia delle preoccupazioni politiche in Europa.

• L’oro è tornato a splendere (+5,5%) nel mese mentre il petrolio Brent ha recuperato parte delle perdite di gennaio sebbene la sua perfomance da inizio anno resti in territorio negativo (-3,2%).

•L’euro ha sofferto le preoccupazioni politiche (a partire dall’esito delle prossime elezioni francesi) e tutte le principali monete estere si sono rivalutate, dallo yen (+2,3%) al dollaro (+1,7%), dalla sterlina (+0,6%) al franco svizzero (+0,2%).

(fonte: Easy Watch by FinanciaLounge febbraio 2017)


Trump Rally

Non è finito, ma attenzione a quello che si spera

(da “Il Rosso e il Nero” del 12 gennaio 2017)

Times Square durante la campagna elettorale. 

Times Square durante la campagna elettorale.

Ogni rialzo ha i suoi gufi e il Trump rally, girando intorno a una figura che suscita forti passioni, ne ha ancora di più. Oltre ai permabear e ai bollofobi abituali, oltre a tutti quelli che continuano ad aspettare fiduciosi l’implosione dell’Europa e il crollo della Cina abbiamo questa volta tutti quelli che erano arrivati troppo leggeri alle elezioni, quelli che hanno venduto sulla vittoria di Trump e non hanno più comprato e, soprattutto, tutti quelli (e sono tanti anche tra gestori ed economisti) in cui la passione politica fa premio sulla capacità di analisi e sulla voglia di fare soldi o previsioni corrette. Poiché la passione politica esiste, eccome, anche tra i laudatores del trumpismo, lo sforzo di essere distaccati va raddoppiato. Essere ideologici, nei mercati, non paga mai.

Fino a questo momento l’obiezione più interessante al Trump rally l’ha fatta Trump stesso quando, in campagna elettorale, ha parlato più volte (anche su ispirazione di Carl Icahn) degli elevati livelli raggiunti dai mercati azionari e dell’artificiosità e politicità (nel senso di politics, non di policy) dei tassi bassi. State molto attenti, ha raccomandato più volte agli elettori, e ha anche agito con coerenza, liquidando tra l’estate e l’autunno tutto il suo portafoglio azionario, in una fase in cui, come ha poi rivelato, non pensava che avrebbe vinto le elezioni.

La controbiezione al Trump rally l’ha fatta Carl Icahn quando è scappato di corsa dalla Trump Tower la notte della vittoria per correre a comprare un miliardo di quelle azioni che il resto del mondo, terrorizzato, stava buttando via.

La contro-controbiezione l’ha fatta di nuovo Carl Icahn, che nei giorni scorsi ha rivelato di avere venduto una buona parte delle azioni che il resto del mondo stava disperatamente strappandosi di mano ed è tornato neutrale, lungo di singole società e corto di indici.

Un altro modo interessante di descrivere i limiti del Trump rally è quello di inquadrare il ciclo politico nel ciclo economico, come fa David Rosenberg.

Reagan, Clinton e Obama partirono tutti dopo una recessione e con i mercati ripuliti e sottovalutati. La ripresa economica e i grandi rialzi di borsa che ne seguirono li aiutarono a conseguire il secondo mandato. Trump parte con un ciclo ultramaturo e con una borsa già triplicata. Non sono i presidenti a creare riprese e recessioni ma la Fed e questa Fed, che politicamente non è disposta a fare nessun favore a Trump, si è finalmente messa sulla strada del rialzo dei tassi, che prima di uccidere la ripresa ucciderà il rialzo azionario.

Sono argomentazioni degne di considerazione, ma è innegabile che forti politiche di sostegno alla domanda (detassazione per le famiglie, spese militari e per infrastrutture), se accompagnate a forti politiche di sostegno all’offerta (detassazione per le società, deregulation, politica energetica, rimpatrio delle disponibilità estere delle imprese) possono prolungare e rafforzare la crescita senza per questo creare inflazione, soprattutto se, ai margini del mercato del lavoro, esistono decine di milioni di persone che potrebbero entrarci e tenere bassa l’inflazione salariale.

Il Trump rally, quindi, non è necessariamente finito. Quella che è sicuramente finita è la sua prima fase, quella basata su vaghe aspettative. Questa prima fase è stata modulare. I quattro moduli, azioni, cambi, obbligazioni e materie prime hanno scontato Trump ognuno in isolamento dagli altri. E così le azioni hanno scontato la crescita degli utili da detassazione e prolungamento del ciclo. I cambi hanno puntato sul dollaro per effetto del maggiore differenziale dei tassi e della crescita. I bond hanno invece scontato il nuovo scenario di rialzi accelerati dei tassi, mentre le materie prime hanno festeggiato la maggiore domanda globale prodotta dalle politiche americane.

Tutto giusto, ma fino a un certo punto, perché il rialzo di dollaro e tassi non può conciliarsi, oltre un certo livello, con il rialzo di borsa. Eccoci allora entrati in una fase di riconciliazione tra i diversi moduli. Il trumpismo (e qui parliamo di trumpismo ex ante, quello immaginato) ha un valore, ma si tratta per forza di un valore finito, non infinito. Se vale 100, questo 100 va distribuito tra le varie classi di asset. Se ipotizziamo che la borsa mantenga questi livelli allora il dollaro dovrà tornare un po’ indietro e qualcosa andrà restituito ai bond, che si sono sacrificati per tutti.

Questa fase di riconciliazione si sta accompagnando a una classica redistribuzione, quella per cui Icahn vende e qualche istituzionale ancora sottopesato compra. Fasi di questo tipo sono di solito laterali per la variabile dominante (in questo caso la borsa) e di ritracciamento per le altre (bond e dollaro).

Nel frattempo, sempre più vicino, avanza il trumpismo reale, che non sarà necessariamente quello immaginato se non altro perché sarà infinitamente più articolato e complesso. Quella che si preannuncia è niente di meno che una rivisitazione generale di tutto il sistema fiscale e di tutto il sistema delle istituzioni multilaterali uscite dalla seconda guerra mondiale. Tutto verrà messo in discussione, ci saranno vincitori e perdenti. La sola istituzione di una border tax (che peraltro non farà che allineare l’America a quello che fanno già tutti mascherandolo da rimborso o esenzione dell’Iva sulle esportazioni) avrà effetti difficili da prevedere non solo sui diversi settori americani, ma anche sui loro fornitori, compratori o concorrenti del resto del mondo.

Le ambizioni della nuova amministrazione e del nuovo Congresso sono enormi, ma è enorme anche la complessità dei problemi e degli interessi toccati. Per quanto si intenda partire con la massima energia è probabile che molte riforme si riveleranno più lunghe e faticose di quanto si possa pensare oggi mentre i loro effetti, più che nel 2017, saranno visibili dall’anno prossimo in avanti.

Il percorso per i mercati, dopo la fase attuale di riconciliazione e distribuzione, sarà probabilmente di nuovo in rialzo per le borse non appena si vedranno i primi decreti (già dal 23 gennaio) e i primi abbozzi concreti delle riforme. Da lì in avanti vedremo i mercati ruotare e frantumarsi. Non sarà più ciclici verso difensivi ma molto più complicato. In pratica ogni società quotata farà storia a sé in funzione, ad esempio, della sua aliquota fiscale di partenza, della sua esposizione verso l’estero, dei suoi piani di rimpatrio dei capitali e di reinvestimento. Ci sarà da studiare giorno e notte tanto quanto si è potuto sonnecchiare in questi ultimi anni sotto il pilota automatico delle banche centrali.

Alla fine, se il trumpismo non crollerà schiacciato dal peso delle sue ambizioni, l’America sarà più forte e il ciclo economico potrà vivere più intensamente i suoi due-tre anni di vita residua (la prognosi che prevaleva prima delle elezioni) e forse godere di tempi supplementari.

Se le cose si riveleranno più complicate di come appaiono oggi il ciclo di rialzo dei tassi sarà più lento e il rafforzamento del dollaro più modesto. È possibile che la nuova Fed in via di trumpificazione preferisca un contro-Qe (la vendita dei titoli in portafoglio e lo sgonfiamento del bilancio) a un aumento dei tassi, ma la trumpificazione sarà lenta e solo nel 2018 sarà completata.

Le borse europee, che stanno traendo molto vantaggio dall’euro debole, devono stare attente ad augurarsi un dollaro sempre più forte. Bucare la parità significherebbe mettere in difficoltà l’America, da cui tutto parte e in cui tutto finisce, e imbarcare inflazione in un momento in cui questa ha ripreso a dare segni di vita. Questo potrebbe indurre la Germania a chiedere la fine accelerata del Qe, mettendo in difficoltà la periferia indebitata.

In questo contesto così fluido l’azionario resta da preferire ai bond, ma senza esagerare. La cosa migliore sarà mantenere un livello di liquidità piuttosto elevato in modo da approfittare di volatilità e rotazioni. Ripetiamo, non ci sono all’orizzonte né crash né recessioni, ma ci sono in compenso una lotta politica incandescente in America, nuove tensioni internazionali e un’Europa in cerca di identità, il tutto con valutazioni tendenzialmente alte. Godiamoci lo spettacolo mantenendo una certa prudenza. 

(fonte “il Rosso e il Nero” di Alessandro Fugnoli del 12 gennaio 2017)


Le scelte basilari per gli investitori e quella che noi fortemente preferiamo

(Tratto dalla lettera annuale di Warren E. Buffett agli azionisti della Berkshire Hathaway inc. del 25/2/12)

Investire è spesso descritto come il processo di sborsare denaro adesso nell’aspettativa di ricevere più denaro nel futuro.

Alla Berkshire noi prendiamo un approccio più esigente, definendo l’investire come il trasferimento ad altri di potere d’acquisto adesso con la ragionata aspettativa di ricevere più potere d’acquisto, dopo aver pagato le tasse sui guadagni nominali, nel futuro. Più in sintesi, investire è rinunciare a consumare adesso allo scopo di avere la capacità di consumare di più in una data futura.

Dalla nostra definizione deriva una importante logica conseguenza: la rischiosità di un investimento non è misurata dal beta (un termine usato a Wall Street che comprende la volatilità ed è spesso utilizzato per misurare il rischio) ma piuttosto dalla probabilità – la ragionata probabilità – che quell’investimento causi al suo possessore una perdita di potere d’acquisto durante il periodo considerato. I beni possono fluttuare molto nel prezzo e non essere rischiosi a condizione che sia ragionevolmente certo che ci restituiscano un potere d’acquisto incrementato alla fine del periodo di possesso. E come vedremo, un attivo che non fluttua può essere carico di rischio.

Le possibilità di investimento sono tante e diverse. Ci sono tre principali categorie, comunque, ed è importante capire le caratteristiche di ognuna.  Così facciamo un’indagine sul campo.

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  • Investimenti monetari, che includono fondi monetari, obbligazioni, cartelle fondiarie, depositi bancari, e altri strumenti. La maggior parte diquesti investimenti monetari sono ritenuti “sicuri”. In realtà sono tra gli attivi più pericolosi. Il loro beta può essere zero, ma il loro rischio è enorme.

Nell’ultimo secolo questi strumenti hanno distrutto il potere d’acquisto degli investitori in molti paesi, anche se i loro possessori hanno continuato a ricevere puntuali pagamenti di interessi e rimborsi del capitale. Questo brutto risultato, inoltre, si ripeterà per sempre. I governi determinano il reale valore della moneta, e forze sistemiche talvolta li inducono a gravitare verso politiche che producono inflazione. Ogni tanto tali politiche vanno fuori controllo.

Perfino  negli Stati Uniti, dove il desiderio per una valuta stabile è forte, il dollaro ha perso uno sbalorditivo 86% del suo valore dal 1965, quando ho assunto la responsabilità di Berkshire. Ci vogliono non meno di 7 dollari oggi per comprare quello che 1 dollaro comprava allora. Di conseguenza, una istituzione esentasse avrebbe avuto bisogno di un interesse annuale del 4,3% durante tutto il periodo per mantenere semplicemente il suo potere d’acquisto. I suoi manager si sarebbero presi in giro se avessero considerato anche solo una parte di quell’interesse come un reddito.

Per investitori soggetti a tassazione come voi e me, il quadro è stato ben peggiore. Durante lo stesso periodo di47 anniil rinnovo continuo di titoli di stato statunitensi a breve termine avrebbe prodotto un rendimento annuo composto del 5,7%.  Ciò sembra soddisfacente. Ma se un investitore avesse pagato imposte ad un’aliquota media del 25%, questo 5,7% non avrebbe reso nulla in termini reali. La tassa visibile sul reddito gli avrebbe tolto l’1,4% e quella invisibile dell’inflazione gli avrebbe divorato i restanti 4,3 punti.  Da notare che l’implicita tassa dell’inflazione è stata più del triplo dell’esplicita tassa sul reddito che il nostro investitore riteneva essere il suo principale fardello. “ Noi confidiamo in Dio” dovrebbe essere stampato sulle nostre banconote, ma la mano che aziona la stampante  del nostro governo è stata troppo umana.

Elevati tassi d’interesse, naturalmente, possono compensare gli acquirenti dei rischi d’inflazione che corrono quando affrontano investimenti monetari- e in effetti,  i tassi d’interesse nei primi anni ‘80 hanno fatto questo lavoro egregiamente.  I tassi attuali, comunque, non si avvicinano nemmeno a compensare il rischio di potere d’acquisto che gli investitori si assumono.  Al giorno d’oggi le obbligazioni dovrebbero essere proposte con un avviso di pericolo.

Alle condizioni di oggi, pertanto, non mi piacciono gli investimenti monetari.  Ciononostante Berkshirene detiene un ammontare significativo, prevalentemente della varietà a  breve termine.  Alla Berkshireil bisogno di una liquidità abbondante occupa un posto centrale e non sarà mai alleggerita, per quanto inadeguati possano essere i tassi d’interesse. Per soddisfare questo bisogno, noi principalmente deteniamo titoli del tesoro USA a breve termine, l’unico investimento che può essere considerato liquido anche nelle più caotiche condizioni economiche.  Il livello di funzionamento della nostra liquidità è 20 miliardi di dollari; 10 è il nostro minimo assoluto.

A parte i requisiti che la liquidità e le autorità di controllo ci impongono, noi compreremo investimenti monetari solo se offrono la possibilità di guadagni inconsueti- o perché un particolare credito è sottovalutato, come può capitare in periodi di crollo dei titoli spazzatura, o perché i tassi salgono ad un livello tale daoffrire la possibilità di realizzare un cospicuo guadagno su obbligazioni altamente affidabili quando i tassi scenderanno. Sebbene noi abbiamo sfruttato entrambe le possibilità nel passato – e potremmo farlo ancora – attualmente siamo lontani 180 gradi da tali prospettive. Oggi, un sarcastico commento cheil banchiere di Wall StreetShelby Cullom Davis fece molto tempo fa sembra appropriato: “Le obbligazioni, pubblicizzate come prodotti che offrono rendimenti privi di rischio sono attualmente prezzate per offrire rischio senza rendimento”.

  • La seconda principale categoria d’investimento riguarda beni che non produrranno mai nulla, ma che sono comprati nella speranza, da parte del compratore, che qualcun altro  –  che pure sa che quei beni saranno per sempre improduttivi- pagherà di più per essiin futuro.  I Tulipani, tra tutti, diventarono per un breve momento l’investimento preferito di quel tipo di compratore nel 17° secolo.

Questo tipo di investimento richiede un crescente serbatoio di compratori, che, a loro volta, sono attirati perché credono che il gruppo di compratori si espanderà ancora di più. I proprietari non sono ispirati da ciò che il bene stesso può produrre –  esso rimarrà inanimato per sempre – ma piuttosto dalla convinzione che altri lo desidereranno ancora più avidamente in futuro.

Il principale bene in questa categoria è l’oro, attualmente un grande favorito degli investitori che temono quasi tutti gli altri beni, specialmente la cartamoneta (del cui valore, come detto, essi hanno ragione di essere timorosi). L’oro, comunque, ha due difetti importanti, né essere di molto uso né essere procreativo. E’ vero, l’oro ha qualche utilità industriale e decorativa, ma la domanda per questi scopi è limitata e incapace di assorbire nuova produzione. Mentre, se possiedi un’oncia d’oro per un lunghissimo periodo, possederai sempre un’oncia alla fine di esso.

Ciò che sprona la maggior parte dei compratori d’oro è la loro convinzione che le file dei timorosi cresceranno. Durante l’ultimo decennio questa convinzione si è rivelata corretta. A parte questo, il prezzo crescente ha esso stesso generato un entusiasmo nell’acquisto, attraendo compratori che vedono la crescita come una conferma della loro tesi d’investimento. Siccome molti “saltano sul carro del vincitore”, essi si creano la loro verità – per un po’.

Negli ultimi 15 anni, sia le azioni Internet che le case hanno dimostrato gli straordinari eccessi che possono essere creati combinando una tesi inizialmente ragionevole con prezzi crescenti ben pubblicizzati. In queste bolle, un esercito di investitori inizialmente scettici si è arreso alla “prova” data dal mercato, ed il serbatoio dei compratori – per un periodo – si è espanso abbastanza da tenere il “carro del vincitore” in movimento. Ma le bolle ben gonfiate inevitabilmente scoppiano. Ed a quel punto il vecchio proverbio viene ancora una volta confermato: “Cioè che l’uomo saggio fa all’inizio, lo stupido lo fa alla fine”.

Oggi la scorta mondiale di oro è di circa 170.000 tonnellate. Se tutto questo oro venisse fuso insieme, formerebbe un cubo di circa 21 metri per lato. (immaginatelo comodamente sistemato nella parte centrale di un campo da baseball.)  A 1.750 $ all’oncia – prezzo dell’oro mentre scrivo questo – il suo valore sarebbe di 9.600 miliardi di dollari. Chiamate questo cubo pila A.

Creiamo adesso una pila B che costi un ammontare uguale. A quel prezzo, noi potremmo comprare tutto il terreno coltivabile degli USA (400 milioni di acri – 1,6 miliardi di mq – con una produzione di circa 200 miliardi di dollari all’anno), più 16 Exxon Mobil (la società più profittevole al mondo, ognuna che guadagna più di 40 miliardi di dollari all’anno). Dopo questi acquisti, ci rimarrebbero 1.000 miliardi di dollari per le spese correnti (non avrebbe senso sentirsi a corto di soldi dopo questa abbuffata di acquisti). Potete immaginare un investitore con 9.600 miliardi di dollari che preferisca la pila A rispetto alla pila B?

A parte la sbalorditiva valutazione data alla scorta di oro esistente, gli attuali prezzi comportano una valutazione dell’odierna produzione annuale di circa 160 miliardi di dollari. I compratori – siano essi gioiellieri, utilizzatori industriali, persone spaventate o speculatori – devono continuamente assorbire questa ulteriore scorta semplicemente permantenere un equilibrio ai prezzi correnti.

Tra un secolo i 400 milioni di acri di terreno coltivabile avranno prodotto sbalorditive quantità di grano, frumento, cotone, e altri prodotti della terra – e continueranno a produrre tale preziosa abbondanza, qualunque possa essere la moneta in vigore. La Exxon Mobil avrà pagato trilioni di dollari in dividendi ai suoi proprietari e possederà anche beni del valore di molti più trilioni (e, ricordatevi, avete 16 Exxon).  Le 170.000 tonnellate d’oro saranno immutate in dimensione e ancora incapaci di produrre alcunché. Potrete accarezzare il cubo, ma non risponderà.

Bisogna ammetterlo, quando la gente tra un secolo sarà timorosa, è probabile che corra all’oro. Sono convinto, comunque, che i 9.600 miliardi di dollari della attuale valutazione della pila A avranno capitalizzato nel secolo ad un tasso molto inferiore di quelli della fila B.

Le nostre prime due categorie godono della massima popolarità nei picchi di paura. Il terrore di un crollo economico guida gli individui verso gli investimenti monetari, in particolare verso le obbligazioni, e la paura di un crollo della moneta favorisce il movimento verso beni sterili quali l’oro. Noi abbiamo sentito “la liquidità è regina” verso la fine del 2008, proprio quando la liquidità avrebbe dovuto essere investita piuttosto che detenuta. Allo stesso modo, noi abbiamo sentito “la liquidità è spazzatura” agli inizi degli anni ’80 proprio quando gli investimenti in dollari a tasso fisso erano al livello più attraente a memoria d’uomo. In quelle occasioni, gli investitori che avevano bisogno di un diffuso consenso hanno pagato a caro prezzo quel conforto.

  • La mia preferita – e sapevate che ci sarei arrivato – è la nostra terza categoria: investimenti in beni produttivi, che siano essi aziende, fattorie, o immobili. Idealmente, questi beni dovrebbero avere la capacità, in tempi di inflazione, di assicurare un rendimento che mantiene il loro potere d’acquisto limitando al minimo la richiesta di investimento di nuovo capitale. Fattorie, immobili, a molte società come Coca-Cola, IBM e la nostra See’s Candy soddisfano questo doppio requisito. Certe altre società – penso alle nostre utilities regolamentate, per esempio – non ci riescono perché l’inflazione impone loro prsanti necessità di capitale. Per guadagnare di più, i loro proprietari devono investire di più. Anche così, questi investimenti rimarranno superiori a quelli non produttivi o monetari.

Sia che la moneta tra un secolo sia basata su oro, conchiglie, denti di squalo, o un pezzo di carta (come oggi), la gente sarà disposta a scambiare un paio di minuti del loro lavoro quotidiano per una Coca-Cola o alcune noccioline croccanti della See’s Candy. In futuro la popolazione degli USA muoverà più merci, consumerà più cibo, e richiederà più spazio per vivere di quanto non faccia oggi.  La gente scambierà per sempre quello che produce con quello che altri producono.

Le società del nostro paese continueranno a consegnare efficientemente merci e servizi richiesti dai nostri cittadini. Metaforicamente, queste “mucche” commerciali vivranno per secoli e daranno quantità di latte sempre maggiori. Il loro valore sarà determinato non tanto dal mezzo di scambio ma piuttosto dalla loro capacità di produrre latte. I ricavi dalla vendita del latte capitalizzeranno per i proprietari delle mucche, esattamente come hanno fatto nel 20° secolo durante il quale il Dow Jones è cresciuto da 66 a 11.497 (e pagato anche un sacco di dividendi). L’obiettivo della Berkshire sarà di incrementare il possesso di società di prima classe. Il nostro primo scopo sarà di possederle interamente – ma saremo proprietari anche possedendo significative quantità di azioni quotate. Credo che alla fine di qualsiasi periodo sufficientemente lungo questa categoria di investimento si dimostrerà di gran lunga la vincitrice tra le tre che abbiamo esaminato. E ancora più importante, sarà di gran lunga la più prudente.


Non così facile

Il 2017 sarà impegnativo per chi investe

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In almeno un paio di comizi, durante la campagna elettorale, Trump si è lasciato trascinare dalla folla entusiasta che lo acclamava e, stanco di enumerare una per una le sue promesse, ha detto che qualunque cosa desiderassero i suoi elettori lui l’avrebbe realizzata.

Questa promessa, un Trump su misura per le esigenze di ciascuno, sta ispirando i mercati da alcune settimane. Ognuno si fa il film di quello che gli piacerebbe, da un bel taglio di tasse a un nuovo tunnel sotto il fiume per andare in ufficio più in fretta, e comprensibilmente si entusiasma. I dati macro abbastanza positivi gettano poi altra benzina sul fuoco. Se andiamo tutto sommato bene adesso, si ragiona, non c’è limite a quanto bene potremo andare quando avremo, oltre ai tagli di tasse e alle infrastrutture, deregulation, riforma della spesa pubblica, rimpatrio dei capitali tenuti all’estero dalle imprese, migliori trattati commerciali eccetera.

Si sa che la fede sposta le montagne e il riaccendersi degli spiriti animali sopiti può davvero aumentare la propensione a investire e a consumare. Trump, d’altra parte, si sta muovendo meglio di come si pensava e sta circondandosi di persone di alto profilo. I suoi piani sull’economia, inoltre, hanno attinto parecchio da quelli dei repubblicani della camera bassa, che saranno quindi ben lieti di lavorare giorno e notte per varare a tempo di record le misure che hanno da tempo nel cassetto e che finora non hanno nemmeno provato a tirare fuori sapendo che Obama avrebbe messo il veto a tutto.

Insomma la strada appare davvero in discesa fino a primavera avanzata. Ci sarà qualche presa di profitto sull’azionario intorno al giorno dell’insediamento, il 20 gennaio, che sarà anche il periodo in cui si scoprirà, leggendo le trimestrali, che il dollaro forte sta tornando a pesare sugli utili di alcuni esportatori americani. La correzione, se ci sarà, sarà però breve e contenuta perché il flusso di notizie da Washington si manterrà positivo. L’idea di Trump e Ryan è di rendere i primi cento giorni davvero pirotecnici.

Chi ha finora esitato a salire sul carro del Trump rally globale può ancora trovare posto. Il ricaricamento dei portafogli è lungi dall’essere completato. Per mesi, del resto, abbiamo assistito a una fuga dall’azionario in cui l’unico compratore rimasto erano le società quotate con i loro buy-back. Quando si parte da posizioni così leggere il ricaricamento richiede ben più di uno o due mesi e che la fame di azioni sia ancora fortissima lo dimostra la reazione positiva, quasi temeraria, alla correzione a sorpresa al profilo dei tassi del 2017, con tre aumenti invece di due, da parte della Fed.

Fu ben diversa, in gennaio, la reazione del mercato quando Stanley Fischer, sorprendendo tutti, ipotizzò quattro rialzi per il 2016. Il mondo sembrò vacillare, il ciclo economico apparve prossimo alla conclusione e il bull market consegnato alla storia. Si pensò in quel momento che il 2016 avrebbe visto l’inizio di una recessione globale guidata dalla Cina ed eccoci adesso, alla fine dell’anno, in pieno stato di grazia.

La storia del 2016 è l’ennesima conferma di quanto sia scarsa la visibilità sul futuro, sempre e comunque. Anche per questo ci sembrano troppo enfatiche le tesi di chi parla di un intero 2017 positivo per il dollaro e per le borse e pesantemente negativo per i bond.

Il massimo di visibilità che possiamo permetterci arriva fino alla primavera. A un certo punto, però, qualcuna delle tendenze in corso dovrà arrestarsi o addirittura invertirsi. Un dollaro sempre più forte e bond sempre più deboli possono convivere con un rialzo azionario per qualche tempo, ma non per sempre. A un certo punto, d’altra parte, il ricaricamento azionario dei portafogli sarà completato e le notizie negative, oggi accolte con un’alzata di spalle, inizieranno a fare male davvero.

Dopo i primi cento giorni in cui Trump e il Congresso andranno d’amore e d’accordo perché si occuperanno della parte di programma che hanno in comune arriverà un momento in cui Trump inizierà a spingere da una parte e il Congresso (in particolare il senato) dall’altra. Senza considerare le elezioni francesi, equivalenti a dieci volte Brexit se la Le Pen dovesse uscire vincitrice.

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 Verrà insomma un momento in cui sarà bene vendere azioni e dollari e comperare bond, euro (se in Francia avrà vinto Fillon) e azioni legate ai tassi. Per questo, forse, il 2017 sarà alla fine un anno difficile e frustrante in cui sarà facile essere colti in contropiede e commettere errori.

Un primo errore sarà quello di aspettare troppo prima di entrare sull’azionario. Chi sarà entrato in tempo, tuttavia, dovrà a sua volta stare attento a non aspettare troppo prima di uscire.

Quanto ai bond, le banche centrali hanno praticamente completato la prima fase di normalizzazione delle curve dei tassi, che hanno ora la giusta inclinazione. Non bisogna però confondere la normalizzazione delle curve, resa possibile da un’economia globale che non appare più sull’orlo del precipizio della deflazione, con l’inflazione in crescita, che è ancora da misurare e dimostrare. C’è certamente una tendenza strutturale
a un lento rialzo dell’inflazione, dovuta al pieno impiego in America e al Qe europeo e giapponese, ma non bisogna esagerare nell’aggiungere a questa, già nei prezzi, un effetto Trump. Molte delle politiche di Trump, in particolare la deregulation, sono in realtà disinflazionistiche. Quanto alle infrastrutture, nessuno si è accorto degli effetti inflazionistici degli 830 miliardi di infrastrutture spesi sotto Obama né del multiplo di quella cifra speso nei vent’anni passati dal Giappone.

Quanto al dollaro, la sua tendenza naturale, in una fase in cui la Fed alza i tassi e gli altri li lasciano fermi, è al rafforzamento. Attenzione, però. Ci saranno momenti, come abbiamo visto, in cui l’azione congiunta di dollaro e tassi rischierà di apparire la causa di un eventuale rallentamento della crescita americana (ogni anno c’è sempre almeno un trimestre deludente). In quel caso sarà Trump stesso, con un tweet o con una dichiarazione, a fare correggere velocemente il dollaro.

Le borse europee hanno recuperato molto terreno ma restano ancora interessanti in un contesto di crescita stabile e di euro debole. Il mercato giapponese, inversamente correlato allo yen e favorito in ogni modo possibile dal governo Abe, ha anch’esso potenzialità di ulteriore rialzo.

Quanto alle borse emergenti, la performance deludente dell’ultimo periodo non è dovuta ai fondamentali, che restano positivi, ma ai flussi in uscita da parte dei gestori internazionali. Non si capisce del resto perché il dollaro forte debba fare tanto bene a Europa e Giappone e tanto male agli emergenti. In realtà fa bene a tutti (con l’eccezione dei pochi paesi pesantemente indebitati in dollari). Chi esita a rincorrere le borse dei paesi sviluppati perché non vuole strapagarle farà bene a considerare un viaggio controcorrente verso gli emergenti.

(fonte “Il rosso e il nero” di Alessandro Fugnoli – Kairos Partners)


Perché i tuoi soldi investiti stanno per diventare carta igienica e come puoi fare per evitarlo

(di Luca Lixi – protezionefinanziaria.com)

Uno degli sport nazionali più amati di recente è quello di dare la colpa di ogni male del mondo alla finanza e ai soldi.

  • I bambini che muoiono di fame in Africa? Colpa della finanza
  • Le scie chimiche? Colpa della finanza
  • Il surriscaldamento globale? Colpa della finanza
  • L’Inter che perde in casa contro il Cagliari? Colpa della finanza

Qual è la cosa più strana? Che non è totalmente falso.

C’è un distacco enorme tra l’economia reale – le imprese che producono e le famiglie che consumano e risparmiano – e la finanza.
La maggior parte delle distorsioni economiche e finanziarie dei giorni nostri sono attribuibili a “qualcosa” di più grande di noi. Qualcosa di incomprensibile e inafferrabile. 

Ma quel “qualcosa” non è la finanza, per come la intendo io.
(E tra poco ti spiego come la intendo).

Quel “qualcosa” sono le politiche monetarie delle banche centrali e la presenza asfissiante degli Stati nazionali a dirigere le economie nazionali (o sovranazionali).
I complottisti anti-euro, anti-ka$ta, anti-tutto fanno di tutta l’erba un fascio, generando una confusione inaudita.

Tu non fare il complottista, e seguimi in questo ragionamento.

Tutti gli investimenti finanziari sono cartastraccia?

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La mia risposta è NO.
Non tutti.

E te lo voglio dimostrare, con una breve premessa.

Cosa si intende per investimenti finanziari?

Quando investi del denaro sui mercati finanziari, indipendentemente dal prodotto finale che stipuli – sia un fondo comune di investimento o un ETF, una polizza vita o una gestione patrimoniale – i tuoi soldi possono finire, in ultima battuta, solo dentro uno di questi 5 contenitori: 

  1. Azioni
  2. Obbligazioni
  3. Valute (dollaro, yen, franco svizzero, dollaro australiano ecc.)
  4. Materie prime (incluso oro e argento)
  5. Liquidità (soldi liquidi, disponibili, cash)

Ok?

Il prodotto che la tua banca, il tuo promotore/assicuratore o il consulente ti proporrà sarà sempre un mix di questi 5 contenitori finali.

Il nome tecnico di questi contenitori è ASSET CLASS

Ora che lo sai, potrai ridere sotto i baffi quando cercheranno di confonderti le idee con fumosi termini in inglese.
Asset class = contenitori finali dove vengono depositati i tuoi soldi investiti

Quando il tuo assicuratore ti propone una polizza con capitale sicuro e rendimento garantito del 4%, devi sapere e ricordare che la polizza che ti propone sta investendo in uno di questi 5 contenitori.
Tendenzialmente, in obbligazioni.

Tutti i prodotti finanziari investono in questi 5 contenitori

Non esiste un prodotto finanziario magico che investe in un mondo incantato e fatato di rendimenti sicuri al 5%. E’ solo un’illusione creata ad arte per farti credere che i tuoi soldi non finiscano sui mercati finanziari, da te considerati speculativi.

Si investe comunque sui mercati finanziari. Nei mercati obbligazionari, eventualmente. Ma non cambia nulla.
Il campo da gioco è lo stesso per tutti. Non esistono altri campi disponibili.

Poi esistono gli investimenti reali, come gli immobili, le partecipazioni in azienda, i beni di lusso, l’oro fisico ecc.

Ma non sono investimenti finanziari, quindi oggi non ne parliamo.

Cosa diventerà carta igienica finanziaria e cosa non lo diventerà mai

Per semplicità, immagina e tieni in mente solo i due investimenti finanziari più conosciuti.

Le azioni                                                                       Le obbligazioni

Nelle classiche teorie di investimento, un portafoglio adatto ad un risparmiatore prudente, era costruito più o meno così:

  • Il 70% di obbligazioni, il 20% di liquidità, il 10% di azioni
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Questo perché, se sei italiano e hai più di 50 anni (ma anche se ne hai di meno), il collegamento mentale automatico è:

AZIONI

Scommessa, roulette, cattivi speculatori, Borsa, soldi bruciati, rischio elevatissimo

OBBLIGAZIONI

Sicurezza, guadagno basso ma certo, tranquillità delle cedole, titoli garantiti dallo Stato, rischio basso/nullo

Giusto?

Invece è sbagliato.
Non è più così.
Poteva essere vero sino a qualche anno fa.
Sino alla crisi del 2008.
Ma oggi non è più così.

Le facili equazioni:

  • Azione = alto rischio
  • Obbligazione = basso rischio (o rischio zero)

ma, ancor di più, il facile processo:

  • quando il prezzo delle obbligazioni sale, il prezzo delle azioni scende, e viceversa

non funzionano più.

Capisco che è contro-intuitivo e potrebbe essere shockante.

Mi dispiace, non è colpa mia.

Il nonno che ti guarda come un pazzo perché non hai fiducia nei titoli di Stato italiani

Il nonno che ti guarda come un pazzo perché non hai fiducia nei titoli di Stato italiani

Questo va a minare una delle poche certezze che i risparmiatori italiani pensavano di avere.

Se chiedi al nonno, affezionato ai cari vecchi BTP italiani (obbligazioni emesse dallo Stato italiano) ti guarderà come un pazzo e non crederà alle mie parole.

Ma a meno che non faccia Buffett, Lynch, Graham o Munger di cognome,  tuo nonno non mi risulta essere in elenco tra i più grandi investitori della storia.
Quindi, forse, è il caso che presti un po’ di attenzione a quello che sto per dirti.

L’80% delle obbligazioni in circolazione nel 2016 sono cartastraccia

O carta igienica finanziaria, se preferisci.

Ti spiego semplicemente, in poche parole, cos’è un’obbligazione. Così ci allineiamo subito!

L’obbligazione è un debito

E già partiamo male.

Ti piace la parola debito? A me no.

C’è un modo di dire che recita “Sei brutto come il debito”. Ci sarà un motivo?

Viviamo in un mondo dominato dal DEBITO

Il debito pubblico mostruoso e il debito delle imprese che non riescono più a rimborsare per difficoltà economiche, ad esempio. Lo stesso sistema monetario, da quando si è abbandonato il “sistema aureo” (o gold-standard) è un debito.  

Quando compri un’obbligazione, stai alimentando un debito.

E chi dovrà rimborsare questo debito, restituendoti i soldi che gli hai prestato + gli interessi periodici?

Tendenzialmente, uno Stato sovrano.

Italiano, Americano, Tedesco, Greco o di altre nazioni.

(può essere anche un’azienda, e in questo caso l’obbligazione si chiama “societaria” o “corporate”, ma per ora lascia perdere)

E’ considerata comunemente un’operazione senza rischio per questo motivo.
Il garante del pagamento di questo debito è uno Stato.

Figurati se uno Stato fallisce!

Ne sei proprio sicuro?
Grecia e Argentina non ti dicono nulla?

L’Italia nel Novembre del 2011, a un passo dal default, non ti dice nulla?

 

Ma perché sostengo che OGGI le obbligazioni sono cartastraccia?

Perché, in quel contenitore finale che ti ho detto, chiamato OBBLIGAZIONI GOVERNATIVE, sono confluiti miliardi e miliardi di nuovi euro, nuovi dollari e nuovi yen stampati dalle Banche Centrali.

Il croupier Banca Centrale che tira via le chips rimanenti sul tavolo con il bastone chiamato “Innalzamento tassi”

Il croupier Banca Centrale che tira via le chips rimanenti sul tavolo con il bastone chiamato “Innalzamento tassi”

Soldi nuovi di zecca (digitale) stampati con l’intento di ravvivare l’economia mondiale, ma che in realtà NON sono andati a finanziare imprese meritevoli per migliorare la loro attività imprenditoriale, ma sono andati a finire nelle obbligazioni governative, generando una BOLLA di dimensioni mai viste prima.

I valori delle obbligazioni in circolazione sono gonfiati artificialmente. 

Ma quegli stessi soldi, così come sono stati spruzzati con l’idrante dentro alle obbligazioni governative, verranno prima o poi nuovamente drenati dalle Banche Centrali.Verranno tolti dal sistema finanziario, nel classico meccanismo di espansione e contrazione che caratterizza le nostre economie moderne.Ti consiglio di non starci dentro sino ai capelli quando questo capiterà.
Potresti farti molto, molto male.

Quindi, torno alla domanda iniziale.

Tutta la finanza e gli investimenti finanziari sono cartastraccia?

No. Non tutti.

Gli investimenti in titoli di Stato, Stati nazionali che già hanno sfiorato il fallimento, che stanno continuando ad accumulare debiti su debiti, potrebbero diventarlo da qui a breve.

Ma io non posso accettare che le AZIONI siano considerate cartastraccia, come erroneamente considerato da chi fa di tutta l’erba un fascio e considera la finanza come la causa di tutti i mali.

Ripeto: è controintuitivo.
Finora, proprio l’investimento in azioni, l’investimento azionario, l’investimento in fondi azionari è stato considerato quando di più rischioso possa esistere.
Vengono considerate cartastraccia. Il motivo?

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Niente di razionale.

Solitamente, perché tuo cuGGino aveva comprato azioni tecnologiche ad inizio anni 2000, tutto eccitato per i guadagni che gli aveva prospettato suo cuGGino (quindi tuo cuGGino di secondo grado).

Quando la bolla è scoppiata (tutte le bolle scoppiano), tuo cuGGino ha perso un sacco di soldi in Borsa.
E’ stato un pirla, ed è rimasto (meritatamente) con il cerino in mano.

I suoi errori? Eccone alcuni?

  • ha comprato qualcosa che non capiva
  • ha comprato per speculare e non per investire
  • ha comprato ai massimi della bolla “dotcom”
  • ha comprato unicamente mosso dall’avidità e dall’euforia

Fammi controllare un’ultima  cosa.

No, nella “Hall of Fame” dei grandi investitori, oltre a tuo nonno, non c’è neppure tuo cuGGino.

Vuoi smetterla quindi di credere a queste leggende metropolitane?

Sai almeno cosa sono le azioni?

Pensi siano solamente un codice a Wall Street o un grafico su Yahoo Finance?

Pensi siano solamente uno strumento da analizzare o su cui speculare?
Pensi siano legna per il fuoco degli speculatori, quando non sanno che fare iniziano a “bruciare i miliardi in Borsa”?

Le azioni non sono  niente di tutto questo.

Le azioni sono semplicemente quote del capitale di una società per azioni

Comprando azioni, diventi socio di una società ==>

Le società sono imprese produttive ==>

Le imprese produttive sono l’unico motore di ricchezza e di progresso.

Non è più difficile di così.

E’ un po’ più articolato, ma il succo è questo.

Le imprese sono l’unico motore di ricchezza e di progresso.

Non il debito di uno Stato sprecone, corrotto e improduttivo.

Se pensi ancora che le azioni siano cartastraccia, automaticamente stai pensando che la libera impresa sia cartastraccia.

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E penso sinceramente che allora ti troveresti meglio nel Venezuela contemporaneo, in Unione Sovietica quasi 100 anni fa o in Romania 50 anni fa.

Ti sembra rischioso investire in questi strumenti?

Certo che lo è!

C’è il rischio imprenditoriale, che se sei un imprenditore o un libero professionista conosci molto bene perché lo fronteggi ogni giorno nella tua azienda.

Ma visto che c’è un rischio nell’investire in azioni, c’è anche un potenziale rendimento.
Potenzialmente elevato.

Esistono inoltre strumenti potentissimi per controllare e ridurre il rischio azionario, come l’orizzonte temporale, la diversificazione o il piano di accumulo.

Ma ne parlerò approfonditamente nei prossimi articoli.

Non sei ancora convinto che le azioni e la finanza NON siano cartastraccia?
Ti racconto l’ultima storia.

Immagina una giornata tipo:

Apri gli occhi, e dall’iPhone della Apple (o da un qualunque Samsung) controlli le email su Gmail di Google e le notifiche di Facebook e Whatsapp. 
Fai colazione con i cereali Kellogg’s e uno yogurt Danone, poi ti lavi i denti con il dentifricio Colgate e spazzolino Oral-B

Ti lavi utilizzando l’energia elettrica gentilmente concessa da ENEL.

Ti vesti: se sei un tipo sportivo, Nike o Adidas saranno le tue scelte preferite.
Se ti piace vestire elegante, Salvatore Ferragamo e Prada e Tod’s possono fare al caso tuo. 

Sei una donna? Borsa Louis Vuitton e profumo Dior possono andar bene.

Inforchi i tuoi occhiali da sole con lenti Luxottica ed esci pronto per affrontare la giornata.
Sali sulla tua macchina (Porsche? Ferrari? Rolls-Royce? Bmw? Mercedes? O semplicemente Volkwagen? Fiat? Renault?) e vai a fare le tue cose.

Paghi il casello con la tua Visa, o MasterCard, o American Express.

Entri in azienda.
Apri un file .pdf utilizzando Adobe, fai la prima telefonata usando il tuo abbonamento Vodafone, stampi un documento di Microsoft Word sulla tua stampante HP o Xerox. 

A metà mattinata scarti e mangi un cioccolatino Lindt, e proprio non resisti dal farti una Coca-Cola (o una Pepsi). Oppure un tea Nestlé. 

Ti distrai un po’: ordini un libro su Amazon e recensisci il ristorante dove sei stato la sera prima su TripAdvisor. 

Ti dirigi in aeroporto: prenderai un Boeing con la Lufthansa, Air France (O RyanAir)

Arrivato a destinazione, compri subito un gioco per tuo figlio prima di dimenticarti: Hasbro o Walt Disney, i suoi preferiti.

Hai ancora il vizio di fumare. I pacchetti si chiamano diversamente, ma fumerai comunque Philip Morris, Imperial Tobacco, British American Tobacco o Japan Tobacco International.

Sei stanco dopo il volo, e appena arrivato in albergo (della catena Marriott) decidi di farti una birra. Heineken o Carlsberg?
Anzi, preferisci un liquore. Qualunque cosa tu beva, 9 su 10 è Pernod Ricard.
Oppure, visto che sei legato alle tradizioni, ti fai uno Spritz Campari.  

Prima di andare a dormire, ti guardi una serie TV su Netflix e, visto che non stai benissimo, prendi una compressa di paracetamolo RocheNovartis o Pfizer.

Come ormai avrai capito, i brand che ho evidenziato e che utilizzi ogni giorno, tutti i giorni, in una giornata tipo, sono tutte aziende quotate in Borsa.
Aziende di cui puoi comperare le azioni.

Azioni di aziende di tutto il mondo.

Italiane, svizzere, tedesche, francesi, inglesi, americane.

Ogni acquisto e ogni utilizzo che fai di questi brand, stai partecipando impercettibilmente al successo di un’azienda quotata in Borsa, e al successo di chi investe comprando le sue azioni.  

Pensi ancora che tutte le azioni siano carta igienica, non solo le azioni della Procter & Gamble, tra i primi produttori al mondo di carta igienica?

Ora puoi andare. Sei libero e arruolato per zittire qualunque complottista che farnetica su argomenti che non conosce o non capisce.

Alla tua sicurezza finanziaria.

P.S.: investire in azioni, come già scritto nell’articolo, ha ovviamente un livello di rischio.
Come qualunque investimento, e come qualunque impresa.
Sconsiglio di investire in autonomia, perché tra tante buone azioni si nascondono sempre delle insidie.
Che tu non sarai mai in grado di rilevare in autonomia.
Un professionista degli investimenti può aiutarti a far questo.

(Fonte: protezionefinanziaria.com)


Borsa da spiaggia: la settimana dell'investitore

Sotto l’ombrellone ma senza perdere d’occhio i mercati finanziari: cosa vuol dire quello che è successo e cosa ci aspetta nei prossimi 7 giorni

Sospiro di sollievo venerdì notte, investitori guardinghi lunedì, mani nei capelli martedì.

La prima parte della settimana che i mercati finanziari hanno archiviato è cominciata come un incubo, almeno in Europa, soprattutto per le banche. E l’epicentro non è stato Siena ma Francoforte, con Commerzbank, la seconda banca tedesca, che ha pensato bene di lanciare un allarme sugli utili del 2016 proprio due giorni dopo aver incassato la promozione ai test dell’Autorità Bancaria Europea.

I mercati avevano preso con cautela le promozioni ottenute da tutte le grandi banche europee, con l’eccezione del Monte dei Paschi. Poi, con l’annuncio a sorpresa di Commerzbank, hanno deciso di non fidarsi, e giù a vendere. Nella seconda parte della settimana si sono dati una calmata, ma i nervi restano a fior di pelle e la saga del Monte di Siena è ancora aperta, insieme ai problemi di Unicredit.

La prima ha bisogno di 5 miliardi di capitale aggiuntivo, se si pensa che in Borsa ne vale neanche uno (750 milioni per l’esattezza) non è un aumento di capitale qualunque, praticamente è come se sbarcasse sul mercato per la prima volta, quella che in gergo si chiama IPO.

Per Unicredit la storia è diversa, nessuno pensa che sia ridotto così male come Siena, però si stima che chiederà al mercato 7 miliardi per rafforzare il capitale.

Cinque + sette fa dodici. Ce la fa il mercato già così provato proprio dalle banche a tirarli fuori?

Senza qualche forma di aiuto è difficile, se non impossibile. Soprattutto per quanto riguarda il Monte. Ma una nota positiva c’è.

Proprio sul Monte ha deciso di scommettere Jamie Dimon, il banchiere più famoso del mondo, soprattutto perché è riuscito a uscire alla grande dalla crisi di Lehman.

E con la sua JP Morgan ha deciso di garantire l’aumento del Monte. Su MPS ha messo la faccia, sia per garantire insieme a Mediobanca l’aumento, sia per dare una mano a smaltire i NPL. Per il colosso americano sono peanuts, noccioline. Ma Jamie non può permettersi di fare beneficienza anche se solo per appuntarsi sulla giacca la medaglietta di quello che ha salvato la banca più antica del mondo. Deve fare quattrini. Se ci ha messo la faccia forse vuol dire che ha visto qualcosa dove gli altri vedono solo un buco nero. Ci ha messo la faccia e sicuramente non vuole perderla.

 

Dalle banche alle banche centrali

Sul fronte della grande finanza, le decisioni che contavano sono ormai state prese tutte, compresa la riduzione dei tassi da parte della Bank of England che ha cercato di dare un ricostituente all’economia britannica ancora sotto shock per la Brexit.

Tutto il resto, a cominciare dalla Federal Reserve americana, è rinviato a settembre.

Adesso è il momento dei dati economici, che potrebbero influenzare proprio quelle decisioni, e più in là in agosto sarà il tempo delle parole, con i banchieri centrali di tutto il mondo riuniti a Jackson Hole, nel Wyoming, per parlare di come “Progettare un’architettura di politica monetaria resiliente per il futuro”.

Un modo oscuro per dire che in qualche modo bisognerà inventarsi come riportare alla normalità i tassi di interesse, oggi appiattiti sullo zero in tutto il mondo.

Venerdì è uscito il dato più atteso, che avrà implicazioni importanti per il futuro.

La notizia è che l’economia americana a luglio ha creato 255.000 nuovi posti di lavoro, più di quanti fossero attesi, mentre anche i salari si sono mossi al rialzo.

Perché è così importante?

Perché è il numero che guarda la Fed per capire in anticipo se riparte l’inflazione.

Quello del lavoro è un mercato come tutti gli altri: se la domanda di posti supera l’offerta di lavoro i prezzi, cioè i salari, salgono. E prima o poi fanno salire anche i prezzi di beni e servizi, che costano di più. La Fed vuole un’inflazione al 2 per cento. Con questi dati, se continuano, potremmo arrivarci presto. E finalmente potrebbe tornare un po’ di normalità sul fronte del costo del denaro, almeno in America.

(fonte FinancialLounge – www.financialounge.com)


Allineamenti astrali

Stelle favorevoli, quanto durerà? 

Ricordate gennaio e febbraio? Il mondo sembrava sfaldarsi. Il renminbi scivolava e, alla macchina del caffè, il discorso cadeva immancabilmente sulle riserve valutarie cinesi. Per quanti mesi sarebbero bastate? Che triste destino aspettava il resto del mondo che si era abituato a sopravvivere esportando in una Cina che stava per implodere?

E poi il petrolio, le banche europee, l’Isis. E, sopra tutto e tutti, un’economia americana che ristagnava e una Fed che, in questo contesto, non trovava di meglio che annunciare quattro rialzi dei tassi per il 2016, altrettanti per il 2017 e altri due nel 2018, per un totale di dieci. Le stelle non promettevano niente di buono.

Sono passati sei mesi. Alcune stelle appaiono ancora più ostili. Due paesi europei importanti, la Francia e la Turchia, sono ufficialmente in stato di emergenza e un altro, il Regno Unito, ha mollato gli ormeggi ed è partito verso l’ignoto. Le banche europee hanno lo stesso colorito verdognolo. L’Eurozona, che ha avuto sei mesi molto buoni (quando tutti, in gennaio, se li aspettavano mediocri) si avvia ad avere sei mesi mediocri (effetto Brexit) quando tutti se li stanno aspettando buoni.

Altre stelle, però, si sono riallineate in senso favorevole. Benché il renminbi sia di nuovo debole, le riserve valutarie cinesi sono sugli stessi livelli (altissimi) di gennaio. La borsa di Shanghai è diventata più composta e noiosa delle nostre. La crescita cinese, per quanto drogata, è tornata a superare gli obiettivi ambiziosi del piano quinquennale. Il petrolio, dal canto suo, ha ritrovato un equilibrio.

E sopra tutto e tutti, l’economia americana ha ripreso a crescere (da marzo) dopo sei mesi di stagnazione. I consumi vanno bene, il manifatturiero si è rimesso in movimento, si fabbricano e si vendono più case e i servizi sono in pieno boom. In questo contesto la Fed non trova di meglio che rovesciare in modo spettacolare la sua linea d’azione. I dieci rialzi previsti sono stati tutti congelati, al massimo ce ne sarà uno in dicembre. Ripetiamo, dieci rialzi previsti in gennaio con l’economia a crescita a zero e le borse in caduta libera, zero rialzi oggi con il Pil al 2.5, l’inflazione salita di mezzo punto e Wall Street che esplora ogni giorno nuovi massimi storici.

Che cosa è cambiato?

La risposta breve è che le banche centrali sono tornate in stato d’emergenza. Ci erano state tra il 2008 e il 2014 e poi, a un certo punto, avevano pensato che, con la dovuta cautela, si poteva cominciare a normalizzare le cose. Il cammino verso la normalità è stato irregolare, ma la strategia è sempre stata chiara. La Fed ha annunciato il tapering, si è ricreduta, l’ha riannunciato di nuovo e finalmente l’ha fatto. Poi ha annunciato il primo rialzo, si è ricreduta, l’ha riannunciato di nuovo e, dopo mesi di esitazione, si è decisa a farlo. A bond e azioni, che durante lo stato d’emergenza erano stati incoraggiati in tutti i modi a salire di prezzo, è stato intimato lo stop nel maggio 2015 con la famosa chiacchierata tra la Yellen e la Lagarde sui mercati “piuttosto cari”, un altro segno di normalizzazione. Perfino Europa e Giappone, con la svalutazione dell’euro e dello yen, hanno pensato per qualche tempo di essere fuori dal guado.

Poi ci sono stati i sei mesi di stagnazione americana, la paura di gennaio sulla Cina, la delusione sull’Abenomics. Più di recente Brexit, Nizza, la Turchia, le banche europee. Ogni brutta notizia, che in condizioni normali dovrebbe fare salire i Treasuries e scendere le borse, rende più convinte le banche centrali della necessità di rientrare nello stato d’emergenza, quello che piace tanto a tutti gli asset, finanziari e non, e li fa salire tutti insieme.

E poi, diciamolo, c’è il fatto che in gennaio la Clinton aveva in tasca la vittoria mentre oggi le cose sono più incerte. Perché frenare i mercati tornando a parlare di tassi quando li si può lasciare correre verso nuovi massimi proprio nei giorni in cui il Trump che vorrebbe denunciare la debolezza dell’economia viene incoronato candidato ufficiale repubblicano?

Ecco allora che la Fed tace, la Banca d’Inghilterra si prepara a tagliare i tassi, a fare credit easing e più Qe, la Cina continua con le misure espansive e la Bce si appresta, per settembre, a tagliare di nuovo e ad allargare il Qe. Quanto al Giappone, anche se Kuroda si affanna a dire che non ci sarà helicopter money, come vogliamo chiamare una politica in cui il disavanzo pubblico salirà, dopo il rilancio dell’Abenomics, oltre il 7 per cento e la banca centrale lo finanzierà per due terzi? E non è già in pieno helicopter money un paese in cui il debito lordo cresce ogni anno ma quello in mano ai privati continua a calare?

Ma non basta. L’allineamento favorevole include altre due stelle. La prima è il posizionamento sulle borse, piuttosto leggero. Si era convinti che 2100-2130 rappresentasse un tetto invalicabile, all’avvicinarsi del quale bisognava solo vendere. E invece lo si è superato e in molti si sono trovati improvvisamente leggeri e costretti a ricoprirsi.

La seconda stella è rappresentata dagli utili. Li si prevedeva deludenti ed eccoli invece migliori delle stime e non solo del solito centesimo simbolico, ma, in parecchi casi, di ben di più. Anche la qualità degli utili appare buona. La tecnologia scopre nella nuvola una nuova miniera d’oro. Le banche aggirano l’erosione dei margini prestando di più. I farmaceutici vanno bene. Questo, per lo meno, è quello che si vede in America, ma è probabile che in Europa sarà lo stesso.

Quanto durerà questo allineamento favorevole? Come minimo fino alle elezioni americane di novembre. Da qui a fine anno è anche il tempo necessario per misurare gli effetti di Brexit. Finché non sarà chiaro se l’economia dell’Eurozona sarà in grado di assorbire l’effetto negativo, la Bce preferirà sbagliare per eccesso di prudenza. Quanto al Giappone, Abe cercherà in tutti i modi di sfruttare la vittoria elettorale per rilanciare la sua politica espansiva. La crescita americana, dal canto suo, si manterrà probabilmente sopra il due per cento.

Dopo le elezioni si tornerà a parlare di rialzo dei tassi, anche perché l’inflazione americana, nel frattempo, sarà salita di un altro mezzo punto percentuale. Sempre controcorrente, e spesso nel giusto, Jeffrey Gundlach, per anni rialzista sui bond, sostiene che il bull market obbligazionario è finito. Vedremo. Quello che è certo è che c’è una asimmetria sempre più evidente tra quello che si potrà perdere (molto) nei prossimi anni sui bond lunghi e rischiosi e quello che si potrà guadagnare (poco). L’azionario sarà probabilmente attrezzato meglio per affrontare un eventuale scenario di inflazione più alta soprattutto se verrà confermata la riaccelerazione degli utili prevista per il 2017.

Per il momento ci sembra comunque prudente evitare di rincorrere la borsa americana su questi livelli (non è questo il momento di partire a testa bassa, agosto non fa testo;  i giochi veri cominciano il giorno dopo il Labor Day, che segna la fine dell’estate a Wall Street e che quest’anno cade lunedì 5 settembre. Dal 6 settembre si fa sul serio). Meglio comprare Europa su debolezza, c’è più valore. Nei prossimi mesi, se il dollaro si manterrà forte, ci saranno opportunità interessanti per comperare oro e materie prime. Sui bond, tra i pochi strumenti che offrono valore ci sono i Treasuries decennali sopra l’1.75 per cento (ora siamo all’1.61) e alcuni emergenti in valuta locale.

 

(fonte: Il Rosso e il Nero di Alessandro Fugnoli)


Dio salvi la regina, e noi dai tassi zero

Finalmente sta per sciogliersi il nodo Brexit-Bremain dopo che i politici e i banchieri centrali europei hanno fatto di tutto per terrorizzare le opinioni pubbliche e soprattutto i mercati con scenari apocalittici. Ma il compito dei governi e delle autorità finanziarie non dovrebbe essere quello di governare? Vale a dire mandare alle opinioni pubbliche e ai mercati messaggi di sicurezza, tipo ci siamo qua noi, abbiamo la situazione sotto controllo, lasciamo che il popolo britannico voti liberamente come è suo diritto e poi prenderemo tempestivamente le decisioni appropriate. Invece hanno panicato sperando di contagiare gli elettori per ottenere il risultato che sembrava per loro il più conveniente. Meno male che tra quattro giorni archiviamo la pratica, comunque vada andrà meglio di come è andata negli ultimi tre mesi. E se vince la Brexit i britannici avranno sicuramente un bonus, quello di liberarsi del peggior primo ministro da generazioni.

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Un rapido sguardo all’Italia dopo il voto di ieri prima di passare al vero problema che incombe sui mercati e sulle economie dei paesi sviluppati. Renzi si salva portando a casa il sindaco di Milano mentre i grillini trionfano a Roma, come e più del previsto, mandano in Europa un messaggio anti-establishment e anti-euro. Ma il premier evita la debacle e può continuare a puntare sul referendum di ottobre, anche se i tre mesi e mezzo che mancano saranno un Vietnam.

E ora veniamo a noi e al dramma dei tassi zero o sotto. Altro che Brexit! Qui ci stiamo giocando il futuro. Partiamo dagli Stati Uniti. Da sette anni l’economia cresce a un passo decente anche se non esaltante, l’inflazione core viaggia abbastanza stabilmente intorno al due per cento se non sopra, la disoccupazione è al cinque per cento, e il rendimento del T-bond a trent’anni è al 2,3 per cento, quello a 10 all’1,6. Vuol dire che sulla distanza di una generazione ripaga appena l’inflazione attuale senza alcun premio aggiuntivo, e su 10 anni neppure quello. I rendimenti sui Fed fund ripagano tra 1/4 e 1/8 l’inflazione.

Un non senso. Soprattutto se si tiene conto dell’importanza in America del rendimento del titolo del tesoro a 10 anni, il benchmark assoluto per l’economia e per il clima degli investimenti. Soprattutto nell’edilizia e nel mercato immobiliare il rendimento del decennale è la pietra di paragone su cui l’investitore si misura per calcolare il possibile ritorno. È l’impiego più sicuro che esista, quindi se sono un investitore e voglio prendermi un rischio, mi aspetto, se mi va bene, un ritorno che paghi un premio rispetto al decennale. Diciamo il doppio, o magari tre volte? Se il rendimento fosse intorno al 5% le mie attese sarebbero tra il 10 e il 15%, abbastanza per prendermi il rischio. Ma se è poco sopra l’1,5 vuol dire che al massimo il rischio mi ripaga meno del 5%. Quindi non vale la pena. Niente premio per il rischio, niente investimento. E l’economia cresce a passo di lumaca invece di correre.

I tassi zero sono stati inventati da Ben Bernanke e dall’economista Paul Krugman convinti che non bisognava ripetere l’errore degli anni 30, quando un rialzo troppo precipitoso soffocò la ripresa nascente e prolungò di 10 anni la Grande Depressione. Ma i due casi erano profondamente diversi, la crisi del 2008 è stata essenzialmente una crisi di liquidità, quella del 29 di insolvenza. Il QE è stata la risposta giusta nel primo caso, non certo i tassi a zero per quasi un decennio. Già nel 2009 l’economia americana era uscita dalla recessione e Wall Street, dopo aver perso in pochi mesi metà del suo valore, ha recuperato rapidamente i massimi pre-crisi per poi addirittura superarli, mentre tra il 29 e il 32 aveva perso nove decimi del suo valore ed era riuscita a tornare ai livelli precedenti il crac solo quasi trent’anni dopo.

L’Europa è un caso diverso, la crisi è arrivata dopo e più violenta, con in più la deflazione che in USA non c’è stata. Anche qui il QE di Draghi è stata la risposta giusta, ma non i tassi negativi, un’assurdità che distrugge ricchezza. E che incoraggia le aspettative deflazionistiche. Il Giappone è un caso a se. Convive con la caduta dei prezzi da quasi trent’anni, ha un debito pubblico che punta al 300 per cento del PIL, la Borsa di Tokyo è tenuta su dagli acquisti della Banca Centrale, eppure ha la moneta più forte del pianeta, nonostante gli sforzi immani delle autorità per farla scendere. È un sistema unico, tenuto insieme dalla disciplina, dalla fiducia e dai risparmi dei giapponesi. Ma non può essere un modello per nessuno.

Bottom line. L’economia americana resterà per altri sei mesi senza guida politica, con il timone in mano a una Fed la cui prima preoccupazione sembra quella di non venir accusata di aver commesso degli errori. Quindi forse toccherà al mercato correggere la rotta e uscire dall’impasse di tassi troppo bassi che gonfiano i prezzi degli asset senza un dinamismo sufficiente a giustificarlo da parte dell’economia reale sottostante. Siamo in un equilibrio innaturale che non può durare. Quello che si può abbastanza facilmente prevedere è che più a lungo dura, più sarà brusco l’aggiustamento. Il mercato non conosce mezze misure e non anticipa i suoi momenti con comunicati in cui si pesano anche le virgole e si mandano messaggi in codice.

PS. La copertina del germanico Spiegel sta diventando una specie di ordine di servizio settimanale con cui Berlino recapita al mondo la lista delle cose da fare: dopo l’implorazione ai britannici di restare in Europa di sabato 11 giugno, l’altro ieri più perentoriamente dice agli americani che devono votare Hillary Clinton perché ha una missione da compiere: salvare il mondo da Trump. Ma una copertina sulla missione della Germania, tipo “salvare l’Europa da Berlino e da Bruxelles”, quella no?

(fonte: Weekly Bulletin FinanciaLounge – www.financialounge.com)


Compriamo tempo!

Ciao a tutti,

sono di ritorno da qualche giorno passato a Formentera.

Prendo spunto da una riflessione fatta dal Presidente di Azimut Pietro Giuliani durante il meeting di lavoro di giovedì scorso, in particolare quando ha fatto riferimento a … “compriamo tempo“.

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Posto che condivido il senso di quello che è sintetizzato nella battuta, vorrei provare a contestualizzarlo nell’ambito della pianificazione finanziaria e, in particolare del servizio di consulenza avanzata e della filosofia gestionale total return che ne è alla base.

I tassi a zero (o negativi) ci tolgono la possibilità di ottenere rendimento, a breve/medio termine e con poco rischio, che solitamente, in passato, era possibile “rimettere” in gioco su delle scelte di allocation più volatili.

Con i tassi a zero non è possibile “riparare” a eventuali scelte allocative infelici.

Morale, a prescindere dal fatto che si adotti una filosofia gestionale value, long only o total return, questo significa che, in un modo o nell’altro, è necessario accettare una maggior componente di volatilità nelle scelte d’investimento.

Cosa significa questo in una logica total return?

Con tassi “monetari” al 2% o al 3% avremmo la possibilità di concentrarci solo sulle tendenze primarie e muoverci di conseguenza con poche operazioni, ponderate con calma, significativi obiettivi di prezzo e di durata, possibilità di fare profit taking.

Nel caso in cui fosse necessario aspettare parecchio tempo (o variazioni importanti di prezzo) per avere la conferma di una rottura di un supporto/resistenza o di una trend line primaria, sarebbe sempre possibile investire nel monetario e ottenere comunque un rendimento positivo, anche al netto dei costi.

Oggi questa possibilità non esiste, quindi non abbiamo alternativa al fatto di accettare maggior volatilità, ovvero aumentare il peso della componente tattica, quindi il numero delle operazioni.

Ovviamente questo comporta che qualche operazione non produca gli effetti sperati, inoltre è possibile (ragioniamo su base statistica) che in particolari circostanze possano verificarsi anche delle sequenze di operazioni non positive.

Per questa ragione, in ogni caso, è necessario essere estremamente disciplinati nel controllo del rischio e accompagnare ogni operazione con uno stop loss.

E’ qui che è indispensabile ……. “comprare tempo”!

La consulenza significa dialogo, interagire, è fondamentale riuscire a trasferire queste riflessioni.

Comprare tempo significa darsi la possibilità di verificare il risultato dopo un certo numero di operazioni, dopo un certo susseguirsi di tendenze e fasi laterali, …. in definitiva in un adeguato orizzonte temporale.

Fare questo significa creare la corretta aspettativa di rischio/rendimento per la soluzione che si è individuata.

Non sto dicendo che sia facile farlo, …… non lo è mai, per nessuno, dico solo che, a maggior ragione in momento di grande incertezza come questo, è assolutamente indispensabile.

Non farlo significa trovarsi a sostenere una situazione difficilissima, dove l’orizzonte temporale si azzera, c’è l’attesa (con ansia) per la quota giornaliera piuttosto che per l’esito della singola operazione o, peggio ancora, si comincia a porre a confronto rendimenti ottenuti con approcci completamente diversi fra loro e così via ……